Dalla Corea del Sud

Tra neon e bandiere sciamaniche

Corea del Sud, così com’è. Una giovane studiosa italiana, precaria, per trovare lavoro all’università finisce in una piccola cittadina della Corea del Sud, appena sotto Pyongyang, capitale della Corea del Nord. “Ma col dottorato in Italia che ci faccio? – Dicevo io, e infatti dicevo bene – e così in un lampo ho deciso: parto. Poi vi mando le mail, poi vi racconto”.

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Il libro in breve

L’alloggio di Johyeon, sprofondato nella campagna sudcoreana a due ore d’autobus da Seul, incastonato nel campus universitario, è un surrogato del pianeta. Maria si trova a vivere una condizione di chierica vagante, in compagnia di altri professori altrettanto attoniti e sradicati provenienti da ogni parte del globo.

Ma quella Corea è una sorpresa, una quotidianità fatta di inchini, inchini e inchini, di tradizioni trasferite dal passato alla contemporaneità fortemente tecnologica di un paese in pieno e rapido sviluppo, dove le bandiere sciamaniche sventolano sopra le “tre stelle” della Samsung (Sam Sung significa tre stelle). La nostra ricercatrice precaria, in quattro anni, passa dall’estraneità totale della straniera sempre linguisticamente in svantaggio, dall’“atroce quotidiano” a un’empatia per le fantasmagorie e le tante ossessioni di un paese misterioso a forma di tigre.

Ci racconta le prime esplorazioni per trovare una panetteria, un negozio di elettrodomestici, entrare nel supermercato per deduzione, guidata dai disegni di cavoli, pesci e mele attaccati alle porte scorrevoli; cucchiaiate di riso striate di alghe, lucide come strisce di petrolio, il monsone, le armature di lycra e gli scudi di pizzo rosato indossati dalle signore per proteggersi dal sole. Parlare Hangul, la lingua del paese con il numero più alto al mondo di interventi di chirurgia plastica. E poi le rovine della città fortificata di Suwon, l’antica capitale e Seul, al terzo posto nella classifica mondiale delle città che innescano il suicidio.

Maria si immerge nel quotidiano, a contatto con la gente, condividendo luoghi e abitudini, fino a capire, a integrarsi, “Perché in fondo qui ci sto bene”, tanto che al momento di andar via pensa che potrebbe anche avere nostalgia del kimchi, il cibo totemico dei coreani.

 

Anteprima

Il primo semestre sta finendo. Questa è l’ultima settimana, sgombra di lezioni ma intralciata da uno strascico di doveri e riverenze. Però non devo andare ogni giorno all’università: posso finalmente viaggiare, riprendermi il diritto allo sguardo. Così ieri ho inaugurato la libertà con una gita solitaria speciale: una visita a Inwangsan, il villaggio degli sciamani, alle porte di Seul. Mi capita sempre, quando sono a Seul, di stupirmi di quanto rapidamente possa cambiare il paesaggio. Così anche ieri: appena riemersa dalla metropolitana ho camminato per un po’ sulla strada principale, sfregata da macchine Kia impiegatizie e da altere, cromate Sonata. Poi mi sono infilata in un vicolo, un cunicolo tra gli Starbucks Coffee e i Barbecue Chicken. Era un mercato ricavato in un tunnel, una specie di suk marocchino, ma invece di sfilare davanti a piramidi di cardamomo, giare unte di argan e scaffali di ciabatte appuntite inciampavo nelle patate dolci e odoravo sfoglie di polpo essiccato. Le donne che sorvegliavano la merce stavano accucciate per terra, su stuoie di paglia. Erano intente a pelare cetrioli e lavare lattughe. Ogni tanto staccavano gli occhi dal verde per osservarmi, ma senza troppa curiosità. Che mi si stiano allungando gli occhi, gonfiando gli zigomi, stirando i capelli? Alla fine del suk ho trovato un crocicchio di strade. Il dilemma l’ho risolto grazie a un signore ruvido, che mi ha mostrato la via da seguire: quella più stretta e ripida. Era una stradina di cemento orlata di condomini massicci e uniformi, che però si sono allontanati quasi subito e invece è spuntato un cancello di legno verniciato, solcato da teste di drago e cespugli di azalee fucsia. Al di là del cancello mi aspettavano la montagna ispida e le rocce selvagge, le gazze solitarie e la frenesia dei tamburi. Mi aspettavano gli sciamani, emarginati nel loro villaggio – superstizione respinta alla soglia. Il villaggio si accatastava tutto in salita, così mi sono arrampicata su per le scale di cemento che foderavano il fianco della montagna, permettendo l’accesso alle poche case e al grande tempio buddhista. Buddhismo e sciamanesimo hanno sempre convissuto placidi in Corea e non mi sono stupita di trovarmi circondata da Buddha graniti e lanterne di loto. Ma la visita al tempio è stata fulminea, perché una musica ossessa precipitava dall’alto e allora sono salita più su ancora, scavalcando uomini torbidi, non graniti ma comunque immobili, inchiodati alle scale. La musica proveniva da Guksadang, un piccolo tempio di sciamani costruito in cima alla montagna, e risuonava forsennata perché in corso c’era una cerimonia: un gut. L’aria bolliva e le porte del tempio erano aperte, così ho potuto spiare dentro. E ho visto: un altare immenso, foderato di ananas, lamponi, mele e cocomeri, montati in piramidi solide e ordinate. Davanti all’altare erano allineati altri cibi, ma non ho potuto studiarli bene perché il mio sguardo era catturato da qualcosa di molto più dinamico: una donna, piuttosto anziana, che ballava in tondo vestita con un hanbok arcobaleno.

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