Il dio degli incroci

Nessun luogo è senza genio

In un mondo desacralizzato l’invisibile non ha dimora, è relegato nell’angolo imbarazzante delle fantasticherie, considerato il retaggio di un passato superstizioso e irrazionale. Non qualcosa da prendere sul serio. Ma non è stato sempre così, e in molti luoghi non lo è neanche oggi.

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Il libro in breve

«Nessun luogo è senza genio» scriveva un retore del IV secolo, testimone che ogni angolo di spazio ha una sua qualità invisibile. Il dio del luogo era una certezza, come il sorgere del Sole.
Il dio degli incroci presidia i prati di San Bartolomeo nel massiccio del Terminillo come pure la Karakorum Highway o le routes del Nord America. Il Genius loci si rivela nei villaggi d’altura della valle dell’Homboro in Pakistan come a Praga o a Berlino. L’autore si imbatte nel genio dei boschi siberiani e nelle divinità delle Ande peruviane; ma anche edifici, mura, torri e fabbriche si comportano come gli ambienti naturali.
Al racconto di viaggio si affianca un percorso nel pensiero e nelle opere del mondo antico e contemporaneo: da Plotino a Jung, da Platone e Bachelard, da Leopardi a Hillmann, dai miti greci alla cultura sapienziale cinese.
Orfani dei miti antichi, non abbiamo avuto abbastanza tempo per consolidarne di nuovi e il nostro atteggiamento disilluso e predatorio ci relega in uno spazio desacralizzato, in una relazione dolorosa con la Terra, con un Cosmo che non si anima più.
Tornare a vedere dove ora non vediamo più nulla è possibile.

Anteprima

Quando vidi il vulcano per la prima volta, per strada non c’era nessuno. Ero arrivato ad Antigua la sera prima, molto tardi. Non dormivo da due giorni e la sola cosa che desideravo era un letto. Avevo deciso di alzarmi presto per scattare foto, e all’alba ero già in strada, spinto fuori da un guardiano assonnato che mi guardava come se fossi matto.
Fu in quel momento che lo vidi. Un colosso muto e oscuro, più alto di qualsiasi cosa, nel cielo limpido che si tingeva di rosso. Rimasi a fissarlo ipnotizzato mentre le prime auto cercavano di schivarmi suonando. Poi presi a vagare per il villaggio, scattando un po’ a caso, cercando un caffè. Ma il vulcano non mollava la presa. Il luogo era saturo, letteralmente dominato dalla sua presenza. La gente usciva per strada, le mamme portavano i figli a scuola, gli autobus gialli prendevano possesso della città, un prete apriva il portone della cattedrale. Nessuno sembrava rivolgergli attenzione, ma il vulcano era lì, con la sua mole, la sua energia, incatenando a sé tutto lo spazio, le persone, e un po’ alla volta anche me.
Un vulcano è un gigante di roccia con un mare incandescente dentro. Una presenza geologica, tellurica. Cosa sarebbero Antigua, Napoli, Catania senza il loro vulcano? Vivergli accanto non è come passare le giornate in una campagna coperta dalla nebbia. Una qualità vulcanica – non so definirla meglio – permea lo spazio, lo determina, incide sulla vita. Una presenza che ritrovo a ogni passo anche nella mia, di vita. Come viaggiatore, architetto, amante della montagna, essere umano. Esiste, risuona, può essere ascoltata. È viva e ha qualcosa da dire.
A lungo non ho saputo cosa fosse, né come definirla, convincendomi infine che si trattasse di una fantasia. Finché ho scoperto di non essere il solo a sentirla, non il primo, e neanche l’ultimo.