Sognare la Terra

Il troll nell'Antropocene

La nostra epoca è segnata dalla parola “crisi”. Nessun aspetto ne è al riparo: lo Stato, l’Europa, le istituzioni, la giustizia, la scuola, il sistema sanitario, l’educazione, le famiglie.

Dubosc, in piena emergenza economica, sociale e sanitaria, oltre che ambientale, entra nel vivo della crisi aperta dalla pandemia osservando l’acuirsi delle disuguaglianze, le risonanze psichiche dell’isolamento, la medicalizzazione radicale della vita e della morte e soprattutto il rapporto imprescindibile tra salute e ambiente. Un lavoro di scrittura avviato da tempo sul “perché” e sul “dopo”.

Con una introduzione di Gianluca Solla
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Il libro in breve

Che cosa sceglieremo di fare domani? Come sceglieremo di vivere?

La pandemia può diventare l’occasione per immaginare pratiche di trasformazione nella difficile transizione che si prospetta. Per non tornare allo status quo dell’indifferenza è necessaria una chiave immaginativa che ci connetta diversamente con il mondo.

Sognare la Terra si interroga sulla crisi di un modello di sviluppo sul quale incombe la svolta climatica, e lo fa in modo originale attraverso la lente della clinica, con la consapevolezza crescente che il solo approccio critico non basta. Dubosc chiama in causa la psicologia, l’antropologia e la filosofia, interroga la letteratura e il folklore, la psicopolitica e le “ecologie degli altri”.

Emergono subito le radici coloniali della modernità, con l’accelerazione insensata di processi distruttivi dell’habitat e del bene comune, e dalle voci che l’autore convoca (da Ibsen a Simone Weil, da Gilles Deleuze ad Achille Mbembe, da Judith Butler a Davi Kopenawa e molti altri) si rintraccia il filo di una cruciale rivalutazione della vulnerabilità del vivente e l’urgenza di un approccio etico alla cura condivisa.

In che senso allora il troll – questo essere mitologico al confine tra umano e non umano – è emblematico della crisi? Il troll/hater ricompare nelle comunità virtuali, nella rete, per boicottare e bloccare i processi comunicativi, ma la sua caratteristica paralizzante, simbolo delle scissioni costitutive della nostra “identità”, invade in realtà tutti gli ambiti della nostra vita e si esprime proprio nella tenace resistenza al cambiamento, affermando che un altro mondo è impossibile. Più che mai, per riconnetterci al tessuto vivente al quale tutti noi apparteniamo serve uno sforzo, uno scatto in avanti dell’immaginazione.

D’ora in poi “sognare la Terra” sembra indispensabile per sfuggire alla morsa di un presente apparentemente senza orizzonte.

Anteprima

Può accadere in qualunque momento. La percezione improvvisa che qualcosa non vada, che il tempo sia fuori fase. Come nel romanzo Assurdo universo dove l’eroe si trova improvvisamente sbalzato in un universo parallelo, uguale in tutto e per tutto al nostro, ma dove i terrestri sono in guerra contro gli arturiani e sottoposti a un rigidissimo regime totalitario.

Nell’utopia negativa – o distopia – antichi mitemi di distruzione tornano, compiono il loro giro di giostra: Babilonia in fiamme, i mercanti del mondo in lacrime.

A volte il confine con le intuizioni fantascientifiche si fa tenue. Dall’era atomica in poi – e oggi con l’emergenza climatica – ciò che pareva appartenere alla sfera del delirio emerge come possibilità. Come quando il gruppo rap The Coup immaginò – chissà come – una copertina per un album in uscita nel settembre del 2001 con le torri gemelle del World Trade Center in fiamme. Naturalmente dopo l’11 settembre decisero di cambiare copertina.

Così, in qualunque città del Nord del mondo chiunque potrebbe avere per un istante una visione simile a quella che ha un indigeno yanomami proveniente dalla foresta amazzonica alla vista di questo Triste Occidente.

Un mondo fuori fase, coperto di cemento dove i bianchi mangiaterra, innamorati delle merci, chiusi nelle loro case di pietra non sanno più sognare. Dove tutto sempre accelera, mentre il cielo si ammala di calore e di fumi e rischia di cadere e schiacciare un mondo dove gli spiriti non ballano più.

Del resto la dicotomia natura/cultura informa da tempo la griglia interpretativa con cui l’uomo occidentale legge il mondo per estrarne le risorse ma anche per garantire il proprio dominio.

Ascoltiamo oggi un linguaggio patriarcale e razzista che ripercorre su un’ottava diversa qualcosa che ha già preso forma ripetutamente nella storia. Ritorna un’idea che era fondante sia nel colonialismo che nel nazismo e che consiste nell’ignorare, nell’usare, nel depredare, nello sterminare ciò che non è simile a sé.

È bene ricordare che l’idea di razza e di una gerarchia essenziale tra i generi dà forma al delirio perché viene utilizzata da chi vuol rispecchiarsi solo nel simile per non vedere chi ha davanti.