Statale 17

Storie minime transumanti

Una guida sentimentale e assolutamente soggettiva, pensata per quanti conoscono bene i luoghi toccati dalla Statale 17, con la certezza che riusciranno a riconoscersi in queste pagine.
Perché le immagini delle macerie del terremoto sono solo un dettaglio e non la vera natura del posto e della gente.

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Barbara Summa ha deciso di restituire prima di tutto a sé stessa e poi anche a chi vorrà leggere il suo libro, l’Abruzzo dei suoi ricordi. Un Abruzzo di storie divertenti e immagini vive di paesi e persone, prima del terremoto che ha distrutto case, ma soprattutto vite. I ricordi  e le osservazioni, accumulate negli anni in cui l’Abruzzo è stato per Barbara una casa lontana geograficamente, ma vicina e sempre presente, hanno trovato spazio in questa guida che vuole sì mostrare cosa è andato distrutto, ma anche e soprattutto cosa può essere ricostruito con il lavoro degli abruzzesi stessi.
Le parole sono accompagnate da una selezione di immagini scattate in un viaggio fotografico lo scorso maggio da Gabriele Merolli.

 

Anteprima

Da noi si dice che la robba de campagna
è di Dio e di chi se la magna.
La casa di Ofena è di chi ci ha vissuto.
Il terremoto è di chi lo ha subìto.
Le storie sono di chi me le ha regalate e mie
che le ho prese, e vostre, se le volete ascoltare.

La vita è un passaggio

Poi arrivò il traforo, che per noi è una parola normale, ma forse a chi viene da fuori bisogna spiegare che è una galleria stradale che passa sotto al Gran Sasso tra Teramo e L’Aquila, non un lavoro di intaglio. Cioè, il traforo ormai erano 20 anni che stava per arrivare, a Giulianova bastava prendere il bivio per Teramo e oltre alle indicazioni L’Aquila 100 e Roma 200 c’era anche questo cartello che per eoni è stato lì ad indicare il nulla con su Traforo del Gran Sasso.
Fateci caso, è tutto un tran-tran: transumanza, tratturo, traforo, tutta roba per gente in movimento. Sarà per questo che sullo stradone che entra a Teramo c’è persino un Trans Bar, che sembra forse un posto equivoco ma non lo è. Ci ricorda semplicemente quell’alto concetto buddhista che nella vita siamo tutti di passaggio. Nessuno come noialtri lo ha capito tanto bene.
Con il traforo si aprì tutto un mondo, che l’aquilano medio sul momento forse non era tanto sicuro di esser pronto ad accogliere, ma tant’è e ce lo teniamo, perché è stato uno di quegli eventi epocaliche cambiano la prospettiva di tutta una zona.

Ci vediamo alla colonna

Si diceva prima dei quattro cantoni all’Aquila che separano il corso vecchio dai portici. Il corso vecchio è strettino, comincia dalla fontana luminosa che è questa fontana con figure bronzee di donne che tengono alta una conca da cui si rovescia l’acqua. D’inverno l’acqua può gelare. Se gli volti le spalle per scendere lungo il corso, niente di che. Ma se ci stai andando e alzi la testa, allora ti vedi la fuga prospettica del corso con in fondo la fontana e dietro le montagne. Che è una cosa bellissima e ti ricorda meglio dove sei. In mezzo alle montagne, con il Gran Sasso da un lato e il Sirente dall’altro. E le salite e le discese.
I portici all’Aquila sono un luogo dello spirito. Venendo dal corso, a sinistra dei quattro cantoni cominciano i portici di San Bernardino, in travertino e sospesi sopra un’ardita discesa-salita, che sembra il loop di una pista di skate. Siccome hanno il parapetto, su cui ci si può sedere, sono i portici dei nati stanchi e di coppiette giovanissime che si baciano. Oltre che della bancarella dei libri usati. In fondo ci sono a sinistra la chiesa e a destra la scalinata di San Bernardino. A destra dei quattro cantoni i portici del liceo, poco frequentati e solo di passaggio, sopra ai quali si riposa la biblioteca provinciale, e in fondo ai quali si trova piazza Palazzo, con il palazzo comunale. Dritto invece, a mano destra, ci sono i portici veri e propri. Quelli lungo il corso (che non è il corso vecchio).
Le colonne dei portici, nel corso degli anni diventano il luogo d’elezione di varie comitive d’amici, che a quel punto basta che si dicano Ci vediamo alla colonna, che alle sette di sera lì li trovi. Ciondolano lì fino ad ora di cena o di cinema, poi spariscono tutti. Può così succedere che alle nove di sera il centro dell’Aquila sia assolutamente deserto, per poi rianimarsi tra mezzanotte e le due. E creando il rito dei maschi locali che tentano sempre di essere loro a “chiudere i portici”.
Chiudere i portici funziona così: ci si mette a un capo dei portici verso le due-tre di notte, quando ormai non c’è in giro più nessuno, ci si portano le mani a coppa intorno alla bocca e si grida Oooh. Se qualcuno ti risponde con un Oooh a sua volta, ritenta sarai più fortunato. Se invece non ti risponde nessuno allora te ne vai a dormire con la serena certezza che per quella notte i portici li hai chiusi tu, un gesto di virilità che lèvati.