Con il passo di chi impara dai luoghi. Intervista a Orfeo Pagnani

Gabriele Sabatini ha intervistato l’editore Orfeo Pagnani per DietroLeQuarte su «Flanerí».

Alla fermata della metro Giulio Agricola, riemergendo al livello dell’asfalto ci si trova proiettati su un vialone alberato con in fondo una chiesa. È un quadrilatero di Roma densamente urbanizzato ma a due passi dal Parco degli Acquedotti e, in una traversa, si incontra un negozio dalla vetrina sgombra e gli infissi bianchi. È la sede di Exòrma, casa editrice nei cui libri sempre è presente – da protagonista o di quinta – il viaggio. Ho appuntamento alle sei di pomeriggio con l’editore Orfeo Pagnani, che mi stringe la mano mentre tutto intorno le sue collaboratrici raccolgono ciascuna le proprie cose scambiandosi i cosa fai stasera e gli a domani: mi sembra di aver messo piede in un luogo intimo, violandolo forse un poco. Quando rimaniamo soli, Orfeo si prepara una sigaretta che non accende, ma la posiziona sulla scrivania a due dita dal mio registratore. È un uomo dagli occhi mori e profondi; mentre parla ti guarda e prima di rispondere alle domande che gli pongo, riflette un attimo. «Immagino che Exòrma non sia il tuo primo lavoro», gli dico. Risponde che no, non è il primo lavoro, ma che viene comunque dal mondo editoriale.

 

Ovvero?

La costola da cui nasce Exòrma è quella di un service grafico-editoriale e di editing, una struttura che si occupava anche di progettazione di collane e di attività di comunicazione, lavorando soprattutto per clienti istituzionali come università, enti di ricerca, editori e organizzatori di mostre. È una storia che inizia oltre trent’anni fa, ma a un certo punto – era il 2009 quando sono stati dati i primi si stampi di questa casa editrice – abbiamo cominciato a sentire limitativi i vincoli della committenza e abbiamo deciso di mollare gli ormeggi: Exòrma è infatti l’italianizzazione di una radice greca che significa prendere il largo.

 

Verso quale direzione?

Tra i primissimi titoli pubblicati c’erano quelli della collana TAC – Tomografie d’Arte Contemporanea. Lo spunto ci venne dalle esperienze accumulate in precedenza, quando abbiamo avuto occasione di curare alcuni eventi espositivi, soprattutto di arte contemporanea. I volumi erano dedicati a grandi artisti viventi e venivano tradotti in inglese. Libri bilingue per evidenziare la caratura internazionale degli artisti considerati.

 

Immagino fossero illustrati.

Sì, ma con un taglio particolare. Soprattutto ci premeva proporre ricercatezza nelle soluzioni grafico-tipografiche, perché questa è una delle caratteristiche che sentiamo proprie della casa. Lo scopo è quello di alimentare la tattilità, l’ergonomia del libro cartaceo: è un fatto funzionale, non solo estetico. L’ergonomia facilita la fruibilità, l’accesso ai contenuti. Questo avveniva per le collane di esordio, ma l’abbiamo mantenuto costante nel tempo.

 

Nonostante ciò incida sui costi di produzione. Voglio dire, una collana che coniughi proposte culturali specifiche e ricerca nel materiale tipografico ha costi di produzione elevati.

TAC ha infatti rallentato molto, e in questo momento è ferma proprio perché un editore come noi, indipendente e piccolo anche se tenace, deve tener sempre bene in conto la sostenibilità economica. Senza contare che i libri d’arte contemporanea hanno dei limiti intrinsechi nella loro capacità di penetrazione nel mercato.

 

Cosa avete affiancato a questo primo esperimento?

Nella strutturazione del catalogo abbiamo cercato di restituire un disegno preciso, che desse anche all’esterno l’idea del progetto culturale. A partire dal nome della casa editrice, che come dicevo dà il senso di una partenza. Con le prime uscite abbiamo inaugurato la collana Scritti Traversi: è la nostra ammiraglia.

 

Qual è la caratteristica?

Quella di essere un contenitore trasversale. Scritti Traversi è un luogo dove confluiscono riflessioni di natura antropologica, geografica, cinematografica o letteraria in senso stretto, eccetera. Tutte hanno nel viaggio la scaturigine, ma sono anche l’occasione per delle infilate trasversali in temi particolari. Sono libri quasi sempre scritti da specialisti della materia: l’antropologo che narra la vita tra i popoli dei ghiacci (Matteo Meschiari, Artico nero, ndr) oppure la fotografa che si mette sulle tracce dei luoghi attraversati dai capitani Meriwether Lewis e William Clark (Emanuela Crosetti, Come ti scopro l’America, ndr).

 

Connessioni raffinate, che però vi costringono a suscitare l’interesse di lettori già in possesso di un retroterra solido. Mi chiedo quante nuove uscite facciate ogni anno.

Una dozzina. Pensiamo di incrementare un poco, ma io sono sempre prudente. È una valutazione di tipo generale che riguarda anche l’assorbimento delle librerie: un editore come noi deve saper considerare quale spazio di mercato ha, quale spazio sugli scaffali ha a disposizione. Non solo, deve tenere conto di quanto riesce a comunicare dei libri per farli arrivare in mano al lettore, quindi deve seguire un criterio di equilibrio, perché non ha senso fare dieci libri in più di quelli che si possono accompagnare nelle mani del lettore. Si tradirebbero gli autori, perché i libri – come sappiamo tutti – spariscono se vengono abbandonati nel meccanismo della distribuzione; si tradirebbero i lettori, oltre a far del male alla casa editrice. Quindi, pur avendo la possibilità di aumentare il numero delle uscite, preferiamo stampare di meno per poter curare meglio tutti gli aspetti, per questo alcune nostre collane sono molto lente. E a tali motivi aggiungo la scelta di perseguire un reale criterio di coerenza nell’inserimento di titoli all’interno di una collana, anche per questo le uscite sono commisurate.

 

Più di recente avete pubblicato una serie di volumi marcatamente di narrativa: quisiscrivemale. La domanda è d’obbligo, quanto male?

Te lo racconto tramite un aneddoto, che è quello di un amico che si trova in una campagna italiana, in un luogo sperduto. All’ora di pranzo arriva davanti a una trattoria un po’ sgarrupata che espone un cartello: qui si mangia male. Ovviamente entra e ovviamente mangia benissimo. Ecco, questo è un po’ il senso di quisiscrivemale: intendiamo sfidare il lettore con questo trucco nel nome della collana, e selezionare scritture che non si appiattiscano nel plot, manoscritti dove la ricerca nella prosa vada oltre la categoria della normale fiction.

 

Quasi tutti i libri hanno un apparato di immagini, magari minuto, ma c’è; retaggio non invadente della vocazione artistica da cui siete partiti. Vorrei sapere come lavorate su questo aspetto.

Il linguaggio delle immagini mi sembra ormai imprescindibile, sotto vari punti di vista, e noi – come editore – proviamo ad attribuirgli funzioni diverse in ciascun libro: talvolta le immagini sono didascaliche, talaltra autoriali, con l’auspicio che possano essere un racconto nel racconto. Per reperirle preferiamo sempre guardare al materiale che possiede l’autore. Abbiamo una serie di volumi di giornalismo narrativo e in quel caso ovviamente la foto è anche cronaca o spesso citazione di situazioni. Per questo ci rivolgiamo agli autori, perché dai loro viaggi riportano sicuramente delle immagini che possono rappresentare un punto di vista diverso rispetto a quello raccontato con le parole. Un’aggiunta di contenuto, appunto. Talvolta capita persino che il materiale fotografico o di illustrazione provenga non dagli autori ma dai protagonisti dei libri, cioè dalle persone, dagli intellettuali, dagli artisti che gli autori incontrano strada facendo.

 

Hai accennato a libri di giornalismo narrativo, non quindi dei reportage.

Sono libri che vogliono portare all’interno di un’esperienza personale, diretta. Il Grande Iran ed Egitto Democrazia Militare, per esempio, sono entrambi di un autore, Giuseppe Acconcia, che si è occupato sul campo lungamente di questi due paesi e, oltre alla competenza critica, ha un’esperienza diretta e perciò immersiva nella realtà. Questo consente di avere dei volumi sfaccettati, profondi, che raccontano una realtà da dentro, con uno sguardo che va molto oltre l’osservatorio europeo e le sovrapposizioni di categorie interpretative dell’occidente su quelle parti del mondo.

 

Si sono fatte le sette, parliamo da quasi un’ora. Orfeo Pagnani maneggia frequentemente la sigaretta che è rimasta spenta sulla scrivania. Mi sembra che sia ora di andare e spengo il registratore. Mi chiede da quale parte di Roma vengo; da Primavalle, gli dico, praticamente dall’altro capo della città. Ma con i mezzi pubblici si può viaggiare, mi fa notare. E allora capisco che l’intervista non è finita e mi mostra i libri della collana I viaggi senz’auto, di Paolo Merlini e Maurizio Silvestri. Sono due viaggiatori, o forse meglio dire due viandanti: con passo lento, su mezzi pubblici, raccontano a doppia voce città o regioni d’Italia. «Quello che caratterizza la collana – dice Pagnani – è che il territorio emerge attraverso le storie delle persone incontrate. Gli autori vanno, incontrano, fanno parlare e raccontano. E questo è un modo per far venire fuori l’attualità dei luoghi».

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