12/07/2022

Nannetti. La polvere delle parole

Dalla carta allo schermo - Angelo Fazari

Trama

Questa è la storia del più noto recluso del manicomio di Volterra e del suo libro di pietra. Oreste Fernando Nannetti «era una di quelle cose per cui non c’è posto al mondo», uno tra le migliaia di uomini e donne senza voce internati nell’istituto psichiatrico. Aldo Trafeli, che al manicomio lavora come infermiere, si accorge che giorno dopo giorno Nannetti sta trasformando il muro del padiglione Ferri in un immenso libro. Incide con la fibbia del panciotto parole a prima vista indecifrabili e disegni. Aldo è il solo che presta attenzione alla sua voce, poi nel corso degli anni copia e trascrive il graffito, mentre il muro a poco a poco si sbriciola e le parole tornano a essere polvere, pagine strappate da un quaderno di sabbia e calce. Paolo Miorandi visita più volte i padiglioni abbandonati raccogliendo i frammenti con cui ricostruire la vicenda di Nannetti. Torna infine a Volterra, assieme al fotografo Francesco Pernigo, per documentare ciò che resta e farsi interprete della straziante banalità dell’istituzione manicomiale e del lavoro compiuto dal tempo, sulle parole di Nannetti e sui volti e i ricordi delle persone, in un luogo sempre più eroso dall’abbandono.

 

Recensione

Questa è una storia vera. Vera almeno per Oreste Fernando Nannetti, che per quindici anni ha inciso incessantemente il muro del padiglione Ferri dell’ospedale psichiatrico di Volterra, servendosi della fibbia del panciotto della sua divisa da internato e diventando, suo malgrado, uno dei maggiori esponenti dell’Art Brut del Novecento italiano.

 

L’autore, psicoterapeuta e scrittore, ne restituisce la vicenda o meglio, la immagina, come egli stesso precisa in questo libro che nasce dalla visita dell’autore stesso all’ex ospedale della cittadina toscana e unisce alla narrazione una riflessione sulla natura dei manicomi, prima e dopo la Legge Basaglia.

 

Di Nannetti si sa poco, perché la sua cartella clinica è andata persa ed eventuali altri fascicoli su di lui forse ormai non sono che carta illeggibile, abbandonata all’opera dell’umidità fra resti di edifici deserti.

 

Neanche all’epoca le informazioni erano molte: nato a Roma, Oreste Fernando non conobbe mai suo padre e passò l’infanzia fra orfanotrofi e istituti, finché non venne ricoverato all’ospedale Forlanini per un problema alla schiena; denunciato per resistenza a pubblico ufficiale, ma assolto per vizio di mente, venne internato all’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà. A Volterra arrivò in seguito, nel 1959, e vi restò anche dopo la chiusura dei manicomi, fino alla morte nel 1994.

 

Degli anni che seguirono la reclusione sappiamo che continuò a scrivere e che, grazie al suo graffito, raggiunse anche una certa celebrità, tanto che molti lo cercarono per acquistare i disegni a biro nera che produsse nell’ultima parte della sua vita (circa milleseicento), molti dei quali andati distrutti e che non fu mai disposto a dare via, se non in forma di fotocopia e in cambio di sigarette, penne o altra carta.

 

Nannetti era completamente solo e fu condannato a una vita inesistente e irreale, non soltanto a causa degli incastri della sua mente, ma soprattutto per la condizione alienata da cui non gli fu mai concesso di provare a uscire, passando da istituto a istituto. A Volterra nessuno lo andò mai a trovare né chiese di lui, e se qualcosa della sua vita disgraziata è giunta fino a noi la si deve ad Aldo Trafeli, un ex infermiere che lo osservò incidere il muro del Ferri giorno dopo giorno. Aldo divenne l’unico possibile traduttore del suo diario di pietra, perché l’impegno con cui Nannetti assolveva la sua missione e la precisione che metteva nel tracciare i perimetri delle pagine, prima di riempirle con caratteri aguzzi e privi di curve, lo avevano incuriosito al punto di volersi far spiegare di cosa si trattasse. Lui, un infermiere, aveva così chiesto a un matto il significato delle sue azioni e delle sue parole: un gesto più unico che raro nella storia dei manicomi. E il matto gli aveva risposto, a modo suo.

 

Con questo libro, l’autore, dà forma con tenerezza alla fragilità di un uomo che non dava noia a nessuno e non sapeva riconoscere sé stesso in una foto, che chiamava i giorni della settimana con il nome del pasto che gli sarebbe stato servito a mensa e aveva paura del buio e del silenzio. Ne restituisce i pensieri frenetici con una scrittura che li ricalca, intrecciandoli con i ricordi di Aldo e con i propri, e articolando la narrazione su tre livelli temporali diversi, ma indistinti. Questo flusso di parole e di voci trova sospensione solo quando l’autore racconta del suo ritorno a Volterra insieme al fotografo Francesco Pernigo, nel 2021. Qui il tono cambia e si adegua alla riflessione sull’orrore dei manicomi, vere e proprie città fornite di tutto, ma prive di qualunque libertà. Ancora oggi, attraversando gli scheletri di quegli edifici, si prova una sensazione di disagio e si avverte forte la volontà di cancellazione, suggerita dallo stesso abbandono dei luoghi, ma già insita nella loro originaria funzione di accoglienza per tutti coloro che un tempo venivano considerati scomodi. È forse per un intrinseco meccanismo di contrasto a quella violenza subita che molti internati cercarono di lasciare una loro traccia, pur non consapevoli di quanto stessero facendo. Il graffito di Nannetti si inserisce infatti all’interno di una lunga serie di scritti e disegni di matti illustri, nel libro vengono citati Adolf Wölfli, Aby Warburg, Daniel Paul Schreber e Robert Walser. La scrittura diventa quindi uno strumento, la valvola inconscia attraverso cui la mente scomposta tenta di riequilibrarsi in qualcosa di concreto e di farsi spazio in un mondo che non la accetta, perché diversa.

 

Degli iniziali centottanta metri dell’opera muraria di Nannetti ne restano ormai intatti solo un paio. Ne sono stati prelevati dei pezzi perché non andassero incontro all’erosione del tempo: il primo nel 2014, presentato al pubblico nella Galleria delle Logge comunali e ora conservato al Museo Lombroso di Volterra; il secondo, non ancora esposto, nel 2020, grazie alle rendite delle visite guidate dell’associazione Inclusione Graffio e Parola.

 

Un libro efficace, frutto di lavoro e di ricerca operosa, sulle parole, sulla polvere erosiva del tempo, che cerca di far dimenticare senza però riuscirci del tutto. Un libro che colpisce e affascina con potenza narrativa inusuale.

 
 

Alcune note su Paolo Miorandi

Paolo Miorandi lavora come psicoterapeuta.

Ha pubblicato: “Verso il Bianco. Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser” (Exòrma 2019); “In basso a sinistra. Un viaggio in Cile” (2003); “Ospiti” (2010); “Nannetti” (2012) da cui è stato tratto il cortometraggio “Libro di sabbia”, realizzato con il regista Lucio Fiorentino; “Lessico di Hiroshima” (2015) portato in scena con musiche originali composte da Roberto Conz ed eseguite da Marco Dalpane e “L’ unica notte che abbiamo” (EXòrma, 2020).Ha lavorato inoltre come sceneggiatore ed è stato co-autore di cortometraggi.

Recensione a

Nannetti. La polvere delle parole

di Paolo Miorandi

220
15,20 


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