Calvino, Biamonti, Magliani
il racconto del paesaggio, lo sguardo, la luce
Gli autori mettono in luce la complessa relazione diretta e indiretta tra gli scrittori e tra le forme della loro scrittura, i riferimenti impliciti e le assonanze, le peculiarità e la visione, dando vita a un orizzonte critico articolato, originale e stimolante.
Da questa staffetta di voci emergono il paesaggio fisico, sfondo alle vicende umane in Calvino, il romanzo-paesaggio di Biamonti, il paesaggio-personaggio di Magliani, e infine il pensiero-paesaggio dei tre fotografi, Ario Calvini, Matteo Carassale e Umberto Germinale.
I luoghi da cui veniamo, quelli che ci hanno visto crescere, sono il sostrato sul quale costruiamo le nostre vite, sono ciò che modella il nostro immaginario. Viviamo e assimiliamo il paesaggio della nostra infanzia, «la prima impronta delle cose» conservata dentro di noi, con i suoi profumi e i suoi orizzonti. Si deposita nel tempo una materia con la quale letteratura e fotografia si misurano, interpellando sguardi, immagini e parole illuminate dalla luce del paesaggio.
Questo accade nelle opere di Calvino, Biamonti e Magliani: in esse entrano la luce, lo spazio, il paesaggio contadino, la montagna prossima al mare e le vigne addossate, orti e boschi, acrobatiche pendenze e uliveti centenari, paesi abbarbicati, il mare contemplato dalla terra.
La Riviera dell’estremo Ponente Ligure è, per i tre scrittori, un luogo di appartenenza che richiede un accudimento speciale, paradigma delle difficoltà esistenziali, della trasformazione del paesaggio naturale, di una relazione profonda e reciprocità manifesta tra uomo e ambiente.
A sera lame di nebbia si infiltrano tra i tronchi dei castagni e ne ammuffiscono i dorsi con le barbe rossicce dei muschi e i disegni celesti dei licheni. [da Il sentiero dei nidi di ragno, Italo Calvino]
Una luce radente spianava il mare e lo sollevava nelle insenature; anche al largo esso si alzava a cozzare contro il cielo. Un altro mare, d’ombra, scendeva dalle catene rocciose. [da L’Angelo di Avrigue, Francesco Biamonti]
E quando i vecchi spalancavano le finestre, la luce feriva quei luoghi e li riempiva di tempo. [da L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi, Marino Magliani]
da “Un’idea del paesaggio” di Luigi Marfè
Tra i tanti “scrutatori” che si incontrano nella narrativa di Italo Calvino, un posto speciale spetta certamente al protagonista di Palomar (1983), che prende il nome da un osservatorio astronomico, Mount Palomar, in California, e passa il tempo a esaminare le impercettibili variazioni che determinano le trasformazioni del paesaggio: prova a leggere il movimento delle onde, si sforza di contare i fili d’erba di un prato, osserva con stupore espressioni e gesti della vita animale.
Un giorno, mentre sta contemplando il mondo fuori dalla finestra, il signor Palomar si domanda che cosa significhi davvero “guardare”:
Come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Di solito si pensa che l’io sia uno che sta affacciato ai propri occhi come al davanzale d’una finestra e guarda il mondo che si distende in tutta la sua vastità lì davanti a lui. […] Di là c’è il mondo; e di qua? Sempre il mondo: cos’altro volete che ci sia? […] Dato che c’è mondo di qua e mondo di là della finestra, forse l’io non è altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo.
In un primo momento, Palomar pensa che guardare implichi una qualche interazione tra un dentro e un fuori, ma presto si rende conto che tale distinzione è puramente fittizia, e a ogni sguardo l’interno e l’esterno si ribaltano continuamente l’uno nell’altro. Se l’occhio è finestra sul mondo, da una parte come dall’altra, non c’è che il mondo stesso.
“Fuori e dentro formano una dialettica”, spiegava Gaston Bachelard in La Poétique de l’espace ma “la geometria evidente di tale dialettica si acceca non appena la facciamo svolgere nel campo delle metafore”. Nello spazio dell’immaginazione, i confini si confondono, e le due dimensioni si rovesciano l’una nell’altra: per un verso, si percepisce l’interiorità come se fosse un luogo fisico, la dimora della coscienza; d’altra parte, certi spazi paiono a volte suscitare reazioni emotive, eco di quello che gli antichi chiamavano il genius loci, lo spirito del luogo.
Imparare a guardare il paesaggio significa riconoscere che tra landscape e inscape, lo spazio esterno e quello interiore, c’è meno differenza di quanto solitamente siamo abituati a pensare.