[articolo di Giuseppe Acconcia, uscito sul «manifesto» del 09/01/2015]
Abbiamo raggiunto al Cairo Andeel, una delle firme più pungenti del periodico di satira politica Tok Tok (dal nome delle vespette-taxi, usate per spostamenti brevi nei quartieri popolari), nato in Egitto in seguito alle rivolte del 2011. L’idea controcorrente di attaccare il potere in tutte le sue forme, dai militari agli islamisti, fu di alcuni dei creativi e delle matite egiziane più interessanti, da Makhluf a Mohammed Shennawy e, nonostante la repressione seguita al golpe del 2013, questo incredibile esperimento di satira politica senza paletti continua.
Andeel, come hai reagito all’attacco di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo?
È un episodio orribile. Dopo due giorni di tormenti e un senso di amara delusione perché ci sono ancora persone che muoiono per le loro opinioni, la prima cosa che mi sento di dire è che i nostri sistemi sono fragili. Il mondo sta cambiando in un modo che renderà sempre più difficile isolare gli stili di vita delle persone, le une dalle altre. E sarà sempre più difficile pretendere che continui a funzionare in modo che una parte debba accettare l’ingiustizia delle disuguaglianze.
Credi che si possano mettere dei paletti alla satira?
Credo che i limiti della satira debbano essere scelti dai disegnatori satirici stessi, secondo il loro punto di vista, i valori in cui credono e le battaglie che vogliono combattere. Per esempio io ho smesso di criticare i Fratelli musulmani dopo il 30 giugno 2013, da quando cioè non hanno più avuto il potere nelle loro mani in Egitto e hanno iniziato a essere vittime. Credo che la satira sia una grande arma nelle mani dei deboli contro la tirannia. Non credo però che la satira debba essere in genere sacralizzata, altrimenti potremmo finire con usarla contro chiunque crediamo sia diverso, le minoranze, le etnie o chiunque possa già soffrire di discriminazione.
Conoscevi la rivista e i disegnatori, Georges Wolinski, Cabu, Charb, Tignous, Philippe Honore, uccisi a Parigi?
Ho iniziato a leggere Charlie nei primi anni in cui ho iniziato a fare il disegnatore. Non sono stato tra i più fervidi lettori del giornale solo per motivi linguistici, ma dal giorno dell’attentato ho tradotto e letto molte delle loro vignette.
Pensi che si possa fare satira sulla religione?
Si può parlare di qualsiasi cosa attraverso la satira se è divertente, ha un senso, e fa pensare. Aspiro a questo con il mio lavoro, qualche volta ci riesco, altre no. In Egitto per esempio alcune delle barzellette più famose sono sulla religione, alcune sono davvero irriverenti. Il contesto, il pubblico, la comprensione reciproca e il rispetto possono far funzionare qualsiasi cosa. Certo, è rischioso prendere in giro le cose in cui la gente crede. L’Islam è più di qualche pagina di libro e di insegnamenti, è parte integrante del modo in cui alcune persone capiscono il mondo, guardano al loro passato e al loro presente. Prendere in giro questo, in maniera astratta dalla situazione politica che fa si che voi cittadini europei vi troviate dalla parte «migliore», può comportare troppa confusione.
Vuoi dire che il senso dello humor è diverso in rapporto alle latitudini?
C’è una differenza nel senso dell’umorismo tra un americano e un britannico, un persiano del Nord e del Sud. Il senso dell’umorismo si riferisce sempre alla vita vissuta, condivide riferimenti e sottolinea assurdità in un modo che la gente possa capirlo. Come ho detto, i musulmani prendono in giro la loro condizione, e c’è una gamma di cose accettate e non — e le persone decidono da sole e scelgono chi condivide la loro lunghezza d’onda.
C’è più spazio per la satira politica dopo le rivolte del 2011 in Medio oriente?
Abbiamo tirato un grande respiro di sollievo dopo la fine del regime di Mubarak. Il rassicurante esercizio della libertà di espressione è stato associato con la turbolenza e l’assenza di sicurezza e la crisi generale che l’intero paese stava soffrendo. Ora tutto è cambiato e viviamo l’accettazione popolare della soppressione delle voci critiche. Ma non è solo questo il prezzo da pagare in nome della stabilità.