Sui confini
Europa, un viaggio sulle frontiere
Il tema del confine si intreccia inesorabilmente con la cronaca. Il libro è un viaggio sulle frontiere di un’Europa, quella di Schengen, che vacilla; ma non si limita alla cronaca dell’emergenza umanitaria. L’autore, negli ultimi tre anni, attraversa luoghi dove rimangono indizi di una storia recente, di frontiere in realtà ancora in essere.
Al nord, a Basilea, città d’incontro di tre nazioni, a Copenaghen, tra percorsi ciclabili rialzati ed eleganti palazzi in vetro e cemento, e ancora più su, in Svezia e in Norvegia, dove il confine è segnato da pianure, boschi e una pace silente, si percepisce ancora solo l’eco lontana di quanto avviene lungo altri confini, spesso letteralmente “in fiamme”.
A Melilla, in un’Europa che è Africa, al checkpoint di Barrio Chino controllato dal governo spagnolo, centinaia di persone trasportano balle piene di mercanzia, lavorando per conto di notabili marocchini per una forma di migrazione costante e tollerata; a Ventimiglia, alcune decine di ragazzi africani trascorrono l’estate accampati sugli scogli in riva al mare; a Calais si muore nel tentativo di attraversare la Manica nascosti sotto i tir o si vive nel limbo della “jungle”; a Röszke, in Ungheria, si sorveglia un muro di fil di ferro, che tenga lontani i siriani; a Seghedino, a Cracovia, persino in una capitale come Belgrado, si vive in attesa che qualcosa debba accadere, qualcosa di minaccioso, qualcosa che ha a che fare con le frontiere e la difesa dei confini come suggello dell’identità nazionale; a Idomeni, al confine tra Grecia e Macedonia, sorge il più grande e disperato campo profughi d’Europa.
Così il racconto dei confini diventa racconto dell’attualità, diario geopolitico dell’Europa, dove le linee di demarcazione continuano a rappresentare luoghi simbolici che proteggono realtà economiche e sociali e affermano un’appartenenza geografica irrinunciabile e, soprattutto, non cedibile a chi non ha i requisiti per farne parte.
da ESSERE O NON ESSERE SULL’ÖRESUND
Stiamo osservando il confine dell’Europa continentale fermi dalla parte svedese del ponte. Il governo danese – un governo attualmente guidato da una coalizione composta dai liberali di Venstre (che significa “Sinistra”, tanto per complicare ulteriormente le cose ai nostri occhi di europei meridionali) e sostenuto dai nazionalisti del Partito del Popolo Danese – nelle scorse settimane ha fatto pubblicare una pagina sui maggiori quotidiani libanesi. In quella pagina si dice, in sostanza, “cari amici, state a casa vostra”. O comunque “non venite da queste parti perché non sarete i benvenuti e oltre tutto stiamo cambiando le nostre leggi a vostro sfavore”. Il Libano è stato scelto come paese di diffusione di queste indicazioni perché attualmente offre asilo a circa due milioni e mezzo di rifugiati siriani, almeno metà dei quali, secondo le stime dello stesso governo danese, avrebbe il non segreto desiderio di stabilirsi nella patria di Amleto. Il che per una nazione di cinque milioni e mezzo di persone potrebbe a conti fatti rivelarsi un problema – trascurando deliberatamente il fatto che in Libano la proporzione tra rifugiati e libanesi è decisamente più impressionante. «Hanno fatto bene», ci dice Inge, arzilla settantanovenne con la passione per i tuffi e per le nuotate. La stavamo osservando da un po’, con l’obiettivo di parlare con lei. Ci sembra un soggetto interessante. Vecchia. In forma. Aristocratica nel portamento. Altezzosa nei modi di fare. Un’immagine calzante dell’Europa a queste latitudini. Inge è svedese, ci tiene a sottolinearlo, e dei danesi non si è mai fidata. Li tratteggia nel consueto modo in cui siamo abituati a sentir descrivere chi sta più a sud rispetto a noi. Però apprezza la svolta che i vicini di casa hanno impresso alle loro politiche sull’immigrazione. «Il problema è che tutti questi immigrati, tutti questi musulmani – aggiunge con sicurezza – stanno costruendo qui enormi imperi economici». Enormi. Imperi. Economici. Dice proprio così.
da UN BARBIERE SUGLI SCOGLI
«Sei venuto subito qui, in mezzo agli scogli?». «No, prima sono andato in stazione, a Ventimiglia. C’è un sacco di gente là, in stazione. Anche adesso». «Ok… E dopo?». «Eh… E dopo niente. Mio fratello in stazione non c’era. Giravo con una sua foto in mano, la mostravo agli altri sudanesi che incontravo. È questa», dice tirando fuori dalla tasca una piccola fototessera sovraesposta. Sopra c’è la faccia di un ragazzino, la versione più giovane di John (in effetti potrebbe sembrare una sua foto di qualche tempo fa, ma non glielo diciamo).
«Ma quanti anni ha tuo fratello?», domandiamo. «Uhmmm, fatemi pensare…», riflette. «Quand’è nato noi stavamo ancora a casa nostra, cioè in quella che era la casa di mio padre… La guerra non c’era ancora, non così come adesso… Comunque, ecco, sì, dovrebbe avere quindici anni. Forse sedici. Non ricordo. Comunque non di più».
«Quindi lui si sarebbe fatto tutta quella strada a quindici anni?». «Sì, certo… È per questo che siamo preoccupati», risponde. Sono preoccupati. Meno male. In realtà sarebbe una cosa da collasso, ma la sparizione nel nulla in Sud Sudan è un evento piuttosto comune, purtroppo. «Comunque, tra quelli che ci sono in stazione nessuno l’ ha visto… Sfido, io. Nessuno viene dalle mie parti, tra quelli là».
«Nessuno?». «No, sono tutti… Vengono tutti da altri posti. Là ci sono anche i siriani. Anche loro scappano dalla guerra, vero?». «Sì, esatto. Anche loro». «Poi mi hanno detto di provare a venire qui, che forse il mio fratellino era qui in mezzo, tra questi che stavano sugli scogli. Invece niente, non c’è neanche qui».
«E quindi? Non puoi tornare indietro?». «No, non posso… Perché mentre ero da questa parte la Francia ha chiuso la frontiera e ha mandato qui tutti quei poliziotti che non fanno passare più nessuno».
«E i tuoi documenti? Avrai pure dei documenti con te… Come hai fatto a guidare fino a Nizza?».
«No, non li ho i documenti. Non li ho mai avuti. Ma in Olanda non li chiedono così facilmente, i documenti. Guido la macchina con la patente della mia ragazza, ma ok… Prima o poi riapriranno la frontiera e io tornerò di là».
«E intanto?». «E intanto taglio i capelli. Vengono anche degli italiani, sapete? Sono i ragazzi che ci sono in giro là sopra, quelli delle associazioni. Ci portano sempre qualcosa da mangiare. Soprattutto bottiglie d’acqua. A me fanno anche ricaricare la batteria del rasoio, così mi tengo in allenamento». Ride, John, mimando tagli di capelli in aria. Nel frattempo è arrivato un altro “cliente”.