La rotta di Glauco

Viaggi per terra e per mare

Un viaggio tra archeologia e mito sulle tracce di una cultura del substrato che può rivelarci più di una sorpresa.

Prefazione di Melania G. Mazzucco
Il prezzo originale era: 15,90 €.Il prezzo attuale è: 13,51 €.
Il libro in breve

L’anno esatto non si sa – poteva essere il 1280 avanti Cristo – ma senza dubbio soffiava una gran brutta tramontana, dato che, come racconta la leggenda, la nave Argo dovette esser trascinata a braccia attraverso il piccolo istmo per raggiungere il tranquillo porto interno. Una sfacchinata tale che le gocce di sudore degli Argonauti macchiarono per sempre i ciottoli bianchissimi delle Ghiaie: e si vedono ancor oggi, le tormaline scure e contrastanti.

Con uno studio che si potrebbe definire indiziario, tra ricerca linguistica e avventuroso diporto lungo le coste del Mediterraneo, Maria Silvia Codecasa si lancia all’inseguimento dei metal prospectors del Neolitico dall’Elba a Smirne e ritorno sulle orme del dio Glauco, fino alla terra Etrusca.

Anteprima

Alla ricerca della “memoria citoplasmatica dei popoli senza scrittura”, l’autrice – che ha invece memoria della scrittura, e quasi di ogni scrittura – si lascia cadere nell’abisso del passato, collegando ossessivamente ogni cosa: nomi e miniere, porti e pietre, alberi e frutti. E il Mediterraneo diventa una ragnatela di fili invisibili, di rotte di ignoti marinai, fabbri, contadini, esuli, profughi, demoni e dèi, e le generazioni si tengono l’una con l’altra, e al di sotto o al di là del sapere ufficiale tramandano nomi e luoghi sacri, culti e riti di cui hanno dimenticato il significato ma non il gesto. Salpare con Marisì sulla Rotta di Glauco è partire senza mappa con una piccola barca a vela, esposta al rischio del naufragio, e però anche capace di approdare su una riva ignota del tempo. (dalla prefazione di Melania G. Mazzucco)

Fondamentale, in un viaggio, è il luogo da cui si parte. La pedana di lancio del viaggiatore è un pezzo essenziale del suo bagaglio. E se poi si tratta di un piccolo paese, quello ci sta nel bagaglio tutto intero.
Il piccolo paese di Sant’Ilario, nel Comune di Campo dell’isola d’Elba, mi aveva toccato il cuore. Ci ero entrata per caso nel 1968. Mentre per tutte le strade d’Europa gli studenti dissacravano quanto più era possibile del passato sopravvissuto alla seconda guerra, a Sant’Ilario, nella sala del Comune, si ballava la quadriglia. E quando uscivano di casa lasciavano fuori la chiave nel buco della serratura affinché il visitatore non perdesse tempo a bussare, sapendo che non c’era nessuno in casa. Affascinata da quei gattopardi mi ero fatta una casetta su mezzo ettaro di terra, pensando di poter rivivere, tra un viaggio e l’altro, l’atmosfera pacata della mia infanzia. Non immaginavo che quel paese mi avrebbe dato sorprese tali da influenzare in modo radicale le mie ricerche antropologiche in tutta l’Asia e nel Pacifico.
I duecento abitanti di Sant’Ilario vivevano in vetta a un colle dentro una cerchia di mura con sette porte come Tebe. Al di sopra dell’architrave di una di quelle porte si leggeva la data del 1523, in seguito assorbita nell’installazione di un secondo bagno. Il campanile è in realtà una torre ed è pentagonale, come voleva l’architettura militare del XIII secolo, ma né la torre né la doppia cerchia di mura avevano impedito ai saraceni di Dragut di saccheggiare il paese nel 1553, e meno che mai avevano resistito agli attacchi di francesi e spagnoli al tempo di Napoleone. Però, dopo la seconda guerra, le mura si erano rivelate funzionali per arginare la proliferazione delle seconde case e di conseguenza per tutelare le antiche e sempre rispettate consuetudini.
A Sant’Ilario, pensavo, per qualche decennio ancora poteva avere un senso coltivarsi un mezzo ettaro di terra. Tra l’altro il culto dei serpenti, da me studiato in Asia, era legato allo sviluppo dell’agricoltura preistorica e non mi pareva onesto elogiare nei miei scritti la cultura contadina senza aver mai preso in mano una zappa.
«Una zappa? Fammi pensare, devo aver già visto un attrezzo del genere… forse in cantina?» (…)