Paolo Pergola al Festival della Letteratura di Viaggio

Sabato 28 settembre l’autore Paolo Pergola è stato uno dei protagonisti della sezione “Raccontami una storia” al Festival della Letteratura di Viaggio di Roma.

Durante l’incontro, condotto dalla giornalista Giovanna Zucconi, Pergola ha raccontato avventure e aneddoti, legati alle sue esperienze di inguaribile autostoppista e raccolti nel libro “Passaggi“.

 

Pergola al Festival della letteratura di viaggio

Vi proponiamo l’estratto dal libro di una delle avventure con il pollice a mezz’aria di cui si è parlato sul palco.

“La seconda Mercedes è successo qualche anno dopo. Andavo a trovare mio fratello Marco a Arezzo. Arrivo in treno a Firenze, c’è lo sciopero dei treni, niente più treno per Arezzo. Chiamo mio fratello, che mi dice, prendi un autobus per la periferia sud di Firenze, poi lì trovi lo svincolo per l’autostrada e fai l’autostop da lì. Mi sembra una buona idea. Prendo l’autobus che mi ha detto mio fratello. L’autobus è pieno di stranieri, immigrati, non ci sono abituato, abito all’estero da due o tre anni, l’Italia è cambiata proprio in questi anni, fine anni Ottanta, si vedono cose che prima non c’erano, gente che prima non c’era. Arrivo al terminale dell’autobus, dove c’è lo svincolo. Cerco una piazzola adatta, in direzione dell’autostrada A1. Il sole sta per tramontare, ho ancora pochi minuti utili per un buon passaggio. Tramontato il sole, le probabilità di passaggio diminuiscono drasticamente. La gente non ti vede in faccia, non ti prende. Se ti prende, e mi è capitato, allora la probabilità che ci sia qualcosa che non va aumenta. Una volta, in Germania, era buio pesto, mi ha preso su uno che mi ha fatto vedere la sua collezione di giornalini nazifascisti. Un’altra, a Seattle, sempre dopo il tramonto, mi ha preso su uno con un pick-up truck e, dopo avermi chiesto se mi piacevano le donne, mi ha fatto vedere la sua collezione di pistole & fucili, dietro ai sedili. Al primo bivio, gli ho detto che ero arrivato. Insomma, ero in zona Cesarini. Le mie speranze appese al mio pollice. Col sole all’orizzonte, stavo già pensando a cosa fare, trovarmi un posto dove dormire a Firenze, cercare un telefono per chiamare mio fratello, tornare alla stazione, quando una bella Mercedes bianca, di quelle enormi, una specie di yacht più che una macchina, infatti era anche targata Montecarlo, rallenta. Si ferma proprio lì al mio fianco, come se avesse calcolato benissimo la frenata, come se sapesse di venirmi
a prendere. Si apre la portiera, come se fosse una cosa automatica, ci sta anche che lo fosse, guardo dentro, dico, Arezzo? La ragazza al volante mi dice, vieni, dai! Entro, mi siedo accanto a lei.
Lei è una bellissima ragazza con un forte accento francese. Delphine, si chiama, Delphine, mi chiede cosa faccio di bello. –Vado a trovare mio fratello. – Fai spesso l’autostop? – Sì, sì lo faccio, mi capita. – E non hai paurà?
Non ho mica paura se poi mi prende sempre una bella ragazza con una Mercedes bianca, penso, ma non sempre va così, allora le dico: – No, non ho paura, meglio non aver paura, a cosa serve la paura?
Mi racconta che lei è una specie di stilista, fa design di interni, e si vede, la Mercedes sembra uscita da una rivista, gli interni sono ancora meglio di quella che avevo preso anni fa, quando facevo il liceo. Ha voglia di parlare. Mi chiede cosa faccio nella vita. – Studio biologia marina – le dico. – Ma daveró? Ma sai che io andavó a scuolà con i figli di Cousteau? Simpatisci sai, ne hai sentito parlaré, di Jean-Claude, o Jean-Pierre, non ricordó, Jean Qualcosà… – Sì, forse, sì… – Loro, sempre in maré, che invidià, – mi dice – anche tu immajinó, veró? Mai deludere una che ti dà un passaggio, specie in una Mercedes come quella, allora le dico, sì, in mare, sono sempre in mare. Ormai è quasi buio, guardo fuori il cielo rosso scuro, e dentro i comandi illuminati, bottoni avveniristici, sembra di essere su un aereo. Penso a mio fratello, che mi aspetta, che si domanderà cosa sto facendo. Delphine mi legge nel pensiero. Non è solo una bellissima donna con una mega Mercedes bianca targata Montecarló, è anche una veggente. Mi dice: – Senti, lo vorresti chiamaré tuo fratelló, così gli disci che stai arrivandó, nó? – Sì, ma, cioè, non c’è bisogno che ci fermiamo – le dico. – No, no, infattì, non scè bisognó di fermarsì, puoi usaré questó –mi dice, e apre uno sportello vicino al cambio. C’è un telefono. Un telefono in macchina, per quel che so io, doveva essere il primo telefono in macchina mai esistito, prima ancora che Nokia esistesse, prima che i finlandesi inventassero i cellulari. Un bel telefono bianco come la Mercedes. Lo prendo, lo guardo, lei insiste: – Dai, dai, fai il numeró de tuó fratelló! – Che numero devo fare? – le chiedo. –Ma quelló de tuo fratelló, dai! – Così, come un telefono normale? – le chiedo. – Massì, è soló un telefonó, non ti manjia micà! Vado. Chiamo. Pronto? Pronto? Sento mio fratello dall’altro capo del telefono. – Sì Marco, sono Paolo. – Paolo! Dove cazzo sei? – Sto arrivando! – Come stai arrivando? Da dove chiami? – Da qui, da una macchina – dico sottovoce. – Come? – Ti sto chiamando da una macchina. – Sei in macchina? – Sì, c’è un telefono in macchina, tra venti minuti sarò al casello! – Ma cosa dici? Ma che macchina è? – È una Mercedes – gli dico. – Una Mercedes? Ma stai scherzando? – No, no, va tutto bene, sto arrivando, dai.
Non ci ha creduto, Marco. Con suo figlio di quattro anni, corrono al casello con la Erre quattro scassata, in tempo per vedermi arrivare sulla Mercedes bianca di Delphine. Delphine prende l’uscita per Arezzo, per farmi scendere. Dietro il casello, parcheggia a due passi dalla Erre quattro di Marco, che mi guarda stupito, mentre Delphine mi saluta baciandomi le guance, adesso lo so come si fa, non mi ha preso di sorpresa, ci salutiamo bene bene, e poi esco dalla Mercedes, mi metto lo zaino in spalla, con un gesto fermo ma morbido, tutto in stile Mercedes. La mia seconda Mercedes”.

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