Fantasmi dello tsunami
nell'antica regione del Tohoku
L’undici marzo 2011, un gigantesco tsunami di trentasei metri di altezza si abbatte sulla costa nord-est del Giappone devastando la regione del Tohoku.
Quella zona è stata a lungo considerata un’estrema periferia geografica e culturale, un luogo dove sciamane cieche si riuniscono, ancora oggi, ogni anno presso un vulcano chiamato Monte della Paura. Là si rintracciano culti buddisti segreti e vecchi templi dove i corpi di antichi sacerdoti sono esposti come mummie impudiche. Nell’antichità, il Tohoku era un famigerato regno di frontiera di barbari, folletti e freddo pungente e ancora oggi rimane un luogo remoto, marginale, associato a un dialetto impenetrabile, a un certo tipo di mistero e a una spiritualità arcaica, esotica anche per il giapponese moderno.
Vincitore del Rathbones Folio Prize 2018.
Richard Lloyd Parry viaggia per sei anni in quella periferia estrema del Giappone, dove lo scenario è archetipico: il fiume Kitakami è largo e potente; aironi, cigni e alzavole animano i fitti letti di canne; i villaggi ai piedi delle colline sorgono in equilibrio tra campi di riso e foreste. Si concentra in particolare su quanto accaduto nella scuola elementare di una piccola comunità chiamata Okawa, vicina alla foce del fiume, e là comprende la vera portata della sciagura ascoltando i racconti di chi è sopravvissuto, di genitori disperati che hanno scavato nel fango per anni e poi si sono affidati a medium nella speranza di localizzare i resti dei loro figli.
Dopo il disastro, il Tohoku si affolla di fantasmi, spiriti inquieti che sacerdoti zen provano a placare.
Il Kitakami fu la porta attraverso la quale lo tsunami ottenne accesso alla terra. Il fiume lo incanalò e lo concentrò, rendendolo sempre più intenso e forte, e lo scagliò sul fragile argine.
A Kamaya, le persone fecero quello che facevano sempre dopo un terremoto: riordinare. Tra loro c’era un contadino sessantenne di nome Waichi Nagano, che viveva in una grande casa nei campi. “Ho sentito tutti gli avvisi” disse. “C’era la macchina del municipio con l’altoparlante. Andava avanti e indietro, dicendo: ‘Super-tsunami imminente. Evacuate, evacuate!’ C’erano anche molte sirene. Tutti nel villaggio devono averle udite. Ma non le abbiamo prese sul serio”.
Nagano rappresentava la quinta generazione ad aver abitato e coltivato quella terra. Famiglie come la sua possedevano una coscienza ancestrale, fatta di memoria personale, aneddoti e tradizioni locali: in quel deposito di esperienze ereditarie non c’era il ricordo dello tsunami. “Fino ad allora, nessuno tsunami aveva mai danneggiato Kamaya” disse Nagano. “Sapevamo che a Ogatsu una volta c’era stato uno tsunami e sapevamo del terremoto in Cile. Ma non avevano avuto il minimo effetto su questo villaggio. Così la gente pensava che non sarebbe mai arrivato qui. Le persone si sentivano al sicuro”.
L’esperienza delle generazioni, la saggezza degli antenati costituiscono una voce più forte degli altoparlanti che urlano: “Evacuate! Evacuate!”
Nagano era nel suo capannone, intento a mettere in ordine i suoi attrezzi agricoli sparsi, quando la moglie lo chiamò dalla parte anteriore della casa. Lì vide lo tsunami schiantare l’argine a cinquecento metri di distanza e abbattersi contro gli edifici antistanti. Scappò all’interno e urlò in direzione della figlia e della nipote. I quattro saltarono su due macchine e cominciarono a fare manovra sulla strada. La moglie di Nagano aprì improvvisamente la portiera, dicendo: “La mia borsa, ho dimenticato la mia borsa”. “No! No!” gridò Nagano. “Per favore, torna in macchina”. Mancavano duecento metri fino al punto in cui la strada cominciava a risalire sulla collina. Alcuni secondi dopo averla raggiunta, l’acqua si abbatté alle loro spalle.
Nagano si guardò indietro e vide la sua casa nelle risaie, e Kamaya dietro di essa, sopraffatte dal mare. Nel giro di pochi secondi la casa si era squarciata ed era scomparsa. Era passato poco più di un minuto da quando aveva intravisto per la prima volta lo tsunami; ora fissava, ansimando, la distruzione della sua casa, dei suoi campi, del suo villaggio, dell’eredità di cinque generazioni. “Era una scena infernale” disse Nagano. “Era proprio l’inferno. Come se fossimo in un sogno. Non potevamo credere a quello che stava succedendo”.