Neve, cane, piede

Il romanzo è ambientato in un vallone isolato delle Alpi. Vi si aggira un vecchio scontroso e smemorato, Adelmo Farandola, che la solitudine ha reso allucinato: accanto a lui, un cane petulante e chiacchierone che gli fa da spalla comica, qualche altro animale, un giovane guardiacaccia che si preoccupa per lui, poco altro.

 

12,35 
Il libro in breve

La vita di Adelmo scorrerebbe scandita dai cambiamenti stagionali, tra estati passate a isolarsi nel bivacco sperduto e inverni di buio e deliri nella baita ricoperta da metri di neve, se un giorno di primavera, nel corso del disgelo, Adelmo non vedesse spuntare un piede umano dal fronte di una delle tante valanghe che si abbattono sulla vallata.
Neve, cane, piede si ispira a certi romanzi di montagna della letteratura svizzera, in particolare a quelli di Charles-Ferdinand Ramuz, o alle opere ancora più aspre di certi autori di lingua romancia, come Arno Camenisch, Leo Tuor o Oscar Peer: vi si racconta una vita in montagna fatta di durezza, di fatica, di ferocia anche, senza accomodamenti bucolici.
Nell’ambiente immenso, ostile e terribile della montagna, il racconto dell’isolamento dell’uomo, del ripetersi dei suoi gesti e dell’ostinazione dei suoi pensieri è reso dalla descrizione minuziosamente realistica che a volte si carica anche di toni grotteschi e caricaturali, soprattutto nei dialoghi tra uomo e animali, questi ultimi dotati di loquacità assai sviluppata.

 

Anteprima

Qualcuno bussa alla porta nei lunghi giorni d’inverno. Adelmo Farandola sente quei colpi la notte, ma anche di giorno, perché giorno e notte tendono a confondersi sotto gli strati di neve che trasformano la luce in un crepuscolo azzurro. Adelmo Farandola sobbalza, – Chi è? – chiede, poi finge di non essere in casa, perché non gli piace avere estranei tra i piedi, e resta immobile. Altri colpi alla porta. – Chi è? – chiede il vecchio, ma quasi sottovoce, perché non vuole sapere davvero chi bussa. E fermo, zitto, il respiro esitante.
Il cane lo osserva, in attesa. – Che faccio, abbaio? – dice.
– No, fermo.
– Io d’istinto abbaierei.
– Lo so, ma non farlo. Quelli se ne andranno presto.
– Dici?
Il cane inquieto aspetta i prossimi colpi, le orecchie dritte. Eccoli. Gli scappa un ringhio.
– No! – gli ordina Adelmo Farandola. – O ti ammazzo a calci.
E il cane mugola per la frustrazione.
La notte, i colpi sono più lenti, più vaghi. È la neve che bussa, lo strato spesso di neve che avvolge tutta la baita e la nasconde al sole fino a renderla un semplice rilievo sulla superficie. È la neve che chiede di entrare.
Adelmo Farandola si sveglia a quei colpi. Ha il sonno sottile, sin dai tempi della fuga dalla guerra, gli basta poco per essere destato, e poi resta per ore con gli occhi fissi nel buio, in attesa di riprendere sonno. Ma quei colpi sono così vaghi e lontani che non sa se li ha sentiti sul serio o se li ha sognati, e non sa nemmeno se ora è sveglio sul serio o sta sognando di essere sveglio. In tali momenti, al buio umido della baita fredda, gli sembra di essere tornato nella caverna della sua gioventù, giù in fondo al budello della miniera di manganese. E ha paura di muoversi e di toccare con le mani o con un gomito le pareti di roccia che si stringono su di lui e lo avvolgono e lo ingoiano come le pareti di uno stomaco.
– Li senti anche tu – dice al cane di giorno. È un sollievo constatare che non se li sta sognando.
– Certo che li sento anch’io – dice il cane.
– Meno male.
– Che faccio, insomma, abbaio?
– No, no.
La neve che grava su di loro si muove e vive e respira. Quei colpi sono manifestazioni della sua vitalità. Ora che li ha avvolti li sta digerendo con tutto comodo. Così viene da pensare talvolta al vecchio Adelmo Farandola. Al cane preferisce non parlare di questa sensazione, perché lo vede già inquieto e spaventato di suo, pronto ad agitarsi per ogni scricchiolio, per ogni sgocciolio. Chissà come reagirà agli schianti del ghiaccio in primavera, si dice l’uomo, visto che già ora basta un nonnulla a impaurirlo.