La strage dei congiuntivi
Un noir?
Un’invettiva contro i depauperatori della lingua italiana?
Un esercizio di erudizione?
Imprecisa e riduttiva una definizione univoca. Impossibile.
Si tratta di un romanzo originalissimo, un gioco, un intreccio stretto di livelli narrativi diversi. Un testo divertentissimo e paradossale, denso di rimandi e suggestioni di borgesiana memoria. Una scrittura ineccepibile, un lessico affascinante, una vera delizia della Lingua!
Chi ha ucciso l’assessore alla cultura? Ma, soprattutto, chi salverà la grammatica? Cinque bizzarri personaggi, abilmente descritti, si uniscono per mettere in atto un grande disegno criminoso a difesa estrema di una lingua quotidianamente vilipesa, deturpata e ferita a morte.
I congiuntivi vengono invertiti con i condizionali, i verbi intransitivi goffamente resi transitivi, i gerundi sfregiati, i sinonimi ignorati, i troncamenti confusi con le elisioni, i vocabolari abbandonati nelle cantine ammuffite. Reggenze errate, fastidiose sovrapproduzioni di avverbi, insopportabili diminutivi iperbolici. Espressioni trite e banali, frasi mangiucchiate, difettose, frammentate, incoerenti, prive di punteggiatura…
I più si mostrano indifferenti al progressivo diffondersi della non-lingua; altri si indignano, limitandosi a contrarre le labbra in segno di disgusto; altri ancora – Dionisio e i suoi sodali, un analista sensoriale, un bibliotecario, un dattiloscopista della polizia e un professore di letteratura sospeso dall’insegnamento a tempo indeterminato – decidono di reagire, combattere, attuare il loro salvifico piano, costi quel che costi.
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«Pascal e Sophie anno il piacere di salutare parenti e amici…».
Sacrilegio. Avere, nobile verbo, generoso e caritatevole ausiliare, padre di tutti i tempi composti, signore delle locuzioni, dio giusto e misericordioso che, con quell’idea di possesso che solo lui sa esprimere, dà e toglie la vita. Anno. Quel verbo maltrattato impunemente, violentato, ferito nella sua dignità, denudato e deriso con l’ignobile sottrazione di un’acca, degradato a comune unità di misura del tempo.
Driiiin.
Qualcuno che impreca in una lingua che non conosco.
– No, Sardellitti non c’è, è andato alla SACAR. Passala all’anticrimine.
Uno starnuto.
–Voi due potete andare.
Ticchettio scalpitante sulla tastiera di un computer.
–Tocca a lei. Avanti.
Tubi al neon che friniscono come cicale impazzite.
–Voglio il mio avvocato.
Un altro starnuto.
– Non capisco. Può ripetere? Un attimo. Prendo nota.
Giova cercar di sapienza il regno… Ma cosa sta dicendo. Chi parla? Pronto? Pronto? Pronto?
Prolungato crepitio di fogli di carta appallottolati e lanciati nel cestino. Distanza notevole, parabola arcuata e canestro da tre.
–Vorrei denunciare un furto.
Cellulari che deturpano l’etere con raccapriccianti suonerie polifoniche.
E poi silenzio.
– …
Un breve silenzio a introdurre il dramma collettivo.
Breve.
Silenzio.
Dramma.
Collettivo.
La volta celeste si copre e oscura le stelle; la volta celeste è velata di nubi e la pallida luna non brilla. Sulla terra pian piano calano le tenebre. È l’elegia del servo sofferente. È l’apocalisse.
– Assolutamente sì… Assolutamente no.
Fastidiosa sovrapproduzione di avverbi. Inutili iperboli utilizzate per rendere ancor più perentorie normalissime affermazioni o negazioni. Ma perché la gente non riesce più ad accontentarsi di un semplice sì o un semplice no? Era quasi più sopportabile il cigolio della poltrona reclinabile.
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Dicono di lui
«Ho conosciuto Massimo Roscia nel 2010 a New York; eravamo a casa di comuni amici nell’Upper West Side. Ho subito sospettato che non fosse normale. Sei mesi fa ho letto la bozza di questo suo ultimo romanzo e ne ho avuto conferma. Massimo non è affatto normale e ciò, per la letteratura italiana, è un gran bene».
John L. Hazelwood
PhD, Professor and Chair, Department of Linguistics and Verbal Behavior, Western University, San Francisco, California