Il fronte degli invisibili

La guerra d’Ucraina da una diversa prospettiva

Sara Reginella, dopo il suo primo libro, Donbass. La guerra fantasma nel cuore d’Europa, torna sul fronte russo-ucraino per raccontare di luoghi tra i meno frequentati dai reporter occidentali.

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Il libro in breve

Un viaggio raccontato attraverso le vite dei protagonisti della guerra d’Ucraina vista dal fronte russo.

Dallo stabilimento Azovmaš al centro di detenzione di Stanitsa Luganskaja, dalle città più conosciute a quelle meno note. Dalla frontiera del Donbass fino a Lugansk, Donetsk e oltre; tra cimeli sovietici, dischi italiani, zuppe di boršč e testimonianze militanti; alle prese con le fake news, l’eterno lockdown, i bombardamenti passati sotto silenzio, con la città surreale di Mariupol, con l’odore della paura, gli scudi umani e le madri fantasma.

Sara Reginella, psicoterapeuta e reporter indaga il lato scarsamente rappresentato del conflitto russo-ucraino, quello vissuto dalla popolazione dei territori sotto il controllo russo, con la prospettiva storica di chi lo documenta dal 2014: quattro missioni nell’arco di otto anni, l’ultima sotto le bombe. Le notizie che arrivano dal fronte russo-ucraino sono frammentarie e l’autrice parte  spinta dal desiderio di ricercare i fatti, per guardare al di là delle manipolazioni di chi ritiene che la Russia abbia risposto alla richiesta di aiuto del Donbass e di chi, al contrario, ritiene che abbia attaccato un paese inerme.

Anteprima

– Ci fa piacere che dopo anni torni a trovarci!
– Anche a me, ma dimmi, come ve la passate ora a Donetsk? – domando col tono futile di chi chiede come si sia passato ferragosto.
– Be’, come vuoi che ce la passiamo? Siamo senza acqua da febbraio, bombardano a tutte le ore, la gente muore, che altro ci deve succedere? – risponde con una punta di stizza.
Come spesso accade, prima di partire mi sento giù. Mi capita prima di ogni viaggio, anche se a lungo desiderato: mi viene voglia di morire. Cioè, non proprio morire, ma quantomeno sparire. Figuriamoci se il viaggio che vado a fare è la guerra.
“Nu deržis’ devočka! Tieni duro, ragazza!”, fanno eco nella mia mente le parole di Mark. È grazie a lui, un informatico russo, conosciuto otto anni prima su un social network, se nel 2014 sono venuta a conoscenza della guerra nel Donbass. Dal 24 febbraio 2022, però, non l’ho più sentito. Dopo otto anni, ha smesso improvvisamente di scrivermi. E io ho fatto altrettanto: temo di scoprire che sia in guerra anche lui. Così evito di approfondire e preferisco immaginarmelo ancora dietro la sua scrivania, coi capelli arruffati e pezzi di computer scorticati, che assembla con pazienza chirurgica.
“Non vorrai lamentarti per qualche settimana in Donbass, di fronte a gente che vive il conflitto da otto anni!”, rimprovera la sua voce immaginaria nella mia testa.
“Ma va’, figurati, non ho mica paura”, mi difendo, nel mio soliloquio interiore.
“Strano, solo gli stupidi non hanno paura. Hai iniziato a pensare in modo stupido?”, mi chiede col suo solito sarcasmo.
“Stupido, non stupido, che c’entra! Sto per partire, non è necessario portare sempre tutto all’estremo”, gli dico mentalmente, cercando, allo stesso tempo, di scrollarmi il suo fantasma di dosso.
“Ma sono gli estremi che muovono il mondo”.
“Non m’interessano né gli estremi né gli estremismi né gli estremisti”.
“E allora perché parti?”, domanda.
“Per capire quello che succede, da qui non si capisce, tutti i media russi e del posto sono stati bloccati”.
“Non sono stati bloccati, sono stati censurati”, precisa.
“Sì”, confermo.
“La censura è un atto estremo”, puntualizza, “e se tu reagisci a un atto estremo, sarai considerata un’estremista”.
La sua immagine si spegne solo quando in serata atterro all’aeroporto di Baku.