Il Grande Libro dei Tarli

Così comincia il gran libro dei tarli, da loro scritto e da me decifrato.

Il tarlo è un coleottero amletico e materialista. Ovale come un proiettile, procede in scavi silenziosi, cunicoli elusivi e labirintici. L’intarsio di gallerie sembra comporre la trama di una scrittura, scritture nascoste, cifrate.

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Il libro in breve

Tutte le forme viventi lasciano tracce fantasmatiche, labili impronte dotate di codici, di sistemi di regole. E dunque, mentre Tommaso Lisa sprofonda, come Alice nel paese delle meraviglie, in una dimensione altra, nel complesso reticolo di micorrize, nell’humus del sottobosco, i minimi tarli qui scrivono da soli la loro opera. Non saremmo più noi a fare letteratura con la natura, bensì la natura a scrivere il suo poema.

La scrittura entomologica di Tommaso Lisa rende porosa e indefinita la frontiera che ci separa dagli altri esseri viventi. Lo scrittore procede come un rabdomante attratto dalla parte selvatica e il demone del tarlo lo aiuta a ricucire le sue due anime di entomologo autodidatta e di poeta e critico letterario.
Irriducibili alla logica del senso e ai valori umani, gli insetti e i loro mondi, avvicinati in punta di penna, impongono un diverso modo di considerare la vita e le molteplici relazioni che li legano alle forme della natura e dell’arte.

Guardando le gallerie scavate dai tarli nel legno si ha la sensazione straniante di vivere altri mondi in cui ciascuna vita si esprime creando orme, cunicoli, realizzando architetture, segni archetipici e scritture; la natura stessa scrive con frammenti di opere poetiche create dagli insetti. Gli scavi labirintici si mostrano come esperimenti grafici ludici e combinatori; e ogni specie di Scolitide ha il suo stile.
La trama filosofica del libro lo rende un notevole esempio di ecoletteratura: mentre Homo sapiens progetta la sua estinzione, procrastinando colpevolmente le azioni che il cambiamento climatico impone, come un’orchestra i tarli accordano i loro strumenti nella cassa armonica del legno, si adattano in cerca di piante da attaccare, tanto da indurre noi a incendiare le foreste per distruggerne le colonie: un sintomo dell’Antropocene.
Calarsi nella dimensione del tarlo fino a immedesimarsi con lui offre la possibilità di assumere punti di vista diversi da quello umano e antropocentrico. Un rapporto empatico col coleottero è possibile, così come immaginare una nuova visione del futuro.

Anteprima

C’era una volta, in mezzo alla radura d’un bosco, un pezzo di legno. Aveva attaccato sulla corteccia un fungo poliporo, tanto bello a vedersi che pensai di portarmelo a casa. Per svellerlo assestai un colpo di martellina che staccò anche parte dell’alburno; la livrea era compatta, bruno-argentea nella parte superiore e di sotto gialla, spugnosa. Lo posi in un terrario chiuso con la tarlatana, sopra la scrivania dello studio, di fronte alla finestra, irrorandolo ogni giorno col nebulizzatore. Su un taccuino iniziai ad appuntare note e osservazioni, prodromi di questo stesso prologo.
La superficie del cappello presentò ben presto qualche foro. Avevano iniziato a sortire creature simili a tarli. Trovavo al mattino qualche esemplare in fondo alla scatola, attardato dopo la schiusa notturna. Ai pochi palesati all’esterno doveva corrispondere un maggior numero nella materia legnosa. Mi rallegrai, incuriosito da quale specie d’insetto vivesse lì dentro. Non potevo vedere quanti vi si annidassero dato che il fungo era così compatto che avrei potuto trinciarlo solo con un coltello. Difficilmente poteva trattarsi di Anobi. Lasciai l’ecosistema fare il suo corso, convinto che col tempo avrei trovato delle risposte.
Dal terrario si diffondeva la fragranza del sottobosco. Era bello vedere quei minuscoli coleotteri rincorrersi e crescere di numero tanto che avrei detto fossero nati dalla materia stessa, come automi. Avevano corpi subcilindrici lunghi poco più d’un millimetro, brevi e tozzi, il capo serrato sotto il pronoto. Stavano uscendo dalla parte spugnosa, il lato oscuro del fungo.
Avvertivo un operoso formicolare, un ticchettio continuo, e da dietro la plastica trasparente immaginavo il loro vasto impero fatto di strade, palazzi, monumenti funebri. Il fondo della scatola iniziò a essere cosparso di cadaveri mentre in superficie nuovi esemplari continuavano a banchettare. Supposi fossero i prodromi di un’estinzione. Forti ed efficienti acceleravano i cicli riproduttivi. Giunti al punto di singolarità mi domandai se fossi io la super-intelligenza che li stava guidando alla fine.
Mi sentii un demiurgo a sua volta inscatolato in un universo concluso. Abbandonai il terrario in un angolo del balcone tornando a interessarmene mesi più tardi quando l’ecosistema era ormai giunto al collasso. Trovai le spoglie d’un mondo lunare. S’aggiravano poche pallide larve in una palta di gusci secchi, spore, polvere. Con la pazienza dell’archeologo separai in punta di pinze i corpi. A giudicare da forma e colore dovevano essere due specie differenti di Ciidi.
L’esperimento non ebbe valore scientifico poiché non fu possibile stilare statistiche. Ogni tanto – inframezzati tra pezzi d’elitre, frammenti di pronoti – trovai anche gli esoscheletri d’altri coleotteri, appartenenti alla famiglia degli Scolitidi, che mi riproposi di studiare con attenzione.

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