«Né in cielo né in terra ci catapulta in una sorta di aldilà che è ancora un aldiquà, declinando la sua pervasiva ironia in giocosità e humour ma anche in amarezza, smarrimento e attesa. […] Ci si palesa davanti un teatrino di cartapesta con tutte le ambiguità, le luci e le ombre che portano con sé dei fantasmi. Sono parvenze d’identità derelitte. Le loro storie s’intrecciano con situazioni beckettiane con in più lo spirito di contraddizione e il lassismo tipicamente romanesco…
L’autore eccelle nelle invenzioni funamboliche. Più che la sostanza, ciò che conta è il suono di certe parole che si dissolve nell’aria in un ghigno dissacrante. Persino i nomi dei personaggi sono parlanti: Cesare, Vibenna, Musonio, Ottavia, etc.
Ridere è spesso l’arma degli sconfitti dal senso comune e dal dilagante conformismo ipocrita. La prosa ha in sé una natura divagatoria […]. Tale natura l’ha nello stile e nella lingua. Quando una prosa del genere prova a raccontare, lo fa in modo centripeto per cui ogni divagazione torna sì sul tema ma allo stesso tempo, a partire da una situazione che apparentemente non lo riguarda per niente, racconta di nuovo tutto da capo quel tema. Ciò che ritorna è l’idea del rimpianto come condizione permanente dell’essere umano.
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