«Ci sono città in bilico, dove il presagio del confine è così onnipresente da spingerci a credere che a ogni passo potremmo inavvertitamente varcarlo. Città che, come un seggiolino catapultabile, proiettano altrove chi vi è nato, facendogli capire che la loro vera natura consiste nell’essere un trampolino di lancio e, nel migliore dei casi, un luogo cui fare ritorno. Perciò non stupisce che Trieste continui a generare testi che, eleggendola a proprio punto di partenza, la abbandonano quasi subito per guardare al di là, preferibilmente a est. Pur nella differenza delle rispettive scritture, La frontiera spaesata di Giuseppe A. Samonà e Il bosco del confine di Federica Manzon tematizzano entrambi la natura liminale del capoluogo giuliano […]. Come suggerisce acutamente Samonà, “la terra che si pretende amare è un tempo, più che uno spazio”, e infinite sono le delusioni cui si espone chi spera di ritrovarvi ciò che si era desiderato».
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