«Chiudo con una domanda un po’ filosofica… che cosa significa per te scrivere? Perché scrivi e perché scrivi proprio le cose che sono finite nei tuoi romanzi?
Premetto che a me le teorie sulla scrittura e sulla letteratura piacciono tutte, è imbarazzante. Mi riconosco in tutte, o quasi, e da tutte finisco per imparare. A questo punto possiamo dire che ho un approccio empirico alla faccenda della scrittura: scrivere è un modo per misurarmi con ciò che sta lontano da me. Non dentro di me, non accanto, proprio lontano: l’altro, il nuovo, il remoto, l’incompatibile, lo sconosciuto. La sfida sta nell’osservarlo, nel metterlo a fuoco almeno in parte, nell’intuirne la complessità, l’irriducibilità – e a quel punto scoprire che, riflesso di sbieco, c’è pure qualcosa di me in quell’altro, anche se non lo voglio. Con un tipo come Adelmo Farandola è andata proprio così. Scrivere è ovviamente anche un modo per comunicare tutto questo, per condividerlo. Ed è pure la rivendicazione di una libertà – di sguardo, di approccio, di stile, di scelta di modelli, che so, di percorso. È un inseguire la realtà per quel che vi è di irrisolto, di caotico, di incomprensibile, di contraddittorio, di sfilacciato: un inseguirla, un invidiarla, un tentare di imitarla (questa è la mia personale idea di realismo). E il romanzo, proprio per il suo carattere ibrido, contaminato, mi pare il luogo più accogliente per praticare tutto questo».
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